Noi Marziani

Navigatori del tempo. Il tempo e la polvere.

Noi Marziani
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Noi Marziani [Martian Time-Slip] (1964) — Philip K. Dick

Philip Dick scrive “Noi marziani” nel 1962 in un periodo creativo molto fecondo, e frenetico, durante il suo terzo matrimonio, alimentato da sessioni di scrittura immersiva di ore, sostenuto anche da eccitanti e anfetamine.
Intorno a quegli anni scrive altri importanti romanzi (I giocatori di Titano”, “Simulacri”, “Le tre stimmate di Palmer Eldritch, “La svastica sul sole”).

Questo è un romanzo nel quale l’ambientazione marziana sembra, come spesso accade con Dick, solo un pretesto.
Un pretesto per raccontare in questo caso una storia di esistenze squassate dalla disgregazione, dalla morte e dalla malattia mentale.

Dick è particolarmente affascinato dal disagio psichico, dalla schizofrenia (ne ha sofferto lui stesso o comunque si è convinto di averne sofferto); questi non sono che per lui stati alterati di coscienza che rivelano una realtà sottostante o ulteriore, qualcosa che scivola via dal tempo “attuale”, come si evince anche dal titolo originale (Martian Time-Slip).

I suoi personaggi si muovono con una percezione distorta e con convinzioni parziali su uno scenario di rapporti irrisolti, ambizioni frustrate e individualità solitarie, nel quale l’entropia (e quindi in ultima analisi, la morte), sono sempre in agguato, sempre al lavoro dietro le quinte, come potenti forze in azione.

Lo studio sui personaggi tradisce quello che inizialmente doveva essere un romanzo di narrativa tradizionale.
Dick per molto tempo è stato ossessionato dallo scrivere come romanziere “mainstream” invece che come scrittore di storie sci-fi.
In pratica la società piccolo borghese degli anni 60 con le sue contraddizioni, invidie, caste, idiosincrasie e nevrosi viene trasportata di peso in un ambientazione marziana degli “futuri” anni 90.
Non c’è nulla di particolarmente affascinante in questo futuro polveroso, dove la sopravvivenza è costantemente erosa da un pianeta inesorabilmente avaro di risorse, minaccioso, arido e inaccessibile.
Dick non ha mai scritto e non è interessato a scrivere “hard sci-fi” le sue proiezioni e squarci di futuro non sono affatto affascinanti, sono molto poco dettagliate e/o verosimili e non si sofferma quasi mai sull’aspetto “tech”. E’ un romanzo di esistenze derelitte e questo spiega anche perchè quasi tutti i suoi romanzi non sci-fi sono stati editi solo dopo la sua morte, quando -ironia della sorte- è stato consacrato ed ha avuto successo, dopo aver vissuto e sofferto in ristrettezze materiali ed economiche.
E’ difficile appassionarsi a romanzi nei quali i personaggi sono in costante lotta tra di loro e dentro di loro, sempre sopraffatti dagli eventi o dai loro comportamenti e nei quali non c’è la minima parvenza di riscatto, dove non si trova redenzione, ma nemmeno i neri abissi dell'anima in senso romantico: il tutto è sempre ben saldo all'interno di un contesto sociale tipico piccolo-borghese.

Dick ha una visione sociale sostanzialmente pessimista e la mette nero su bianco, teme la società orwelliana ma stigmatizza anche il capitalismo mercificatorio che ben conosce.
Questa sua storia marziana è in realtà una storia di frontiera in salsa marziana, potrebbe svolgersi nel vecchio west: stessi meccanismi predatori, stessa violenza sociale e stessi soprusi individuali.

Una particolare attenzione viene dedicata alle figure femminili: P. Dick. tratteggia le principali figure femminili in donne molto ben definite, che nella sua vita ha conosciuto amato e odiato: la figura della donna volitiva, distante e forte di carattere, quella della donna remissiva e assuefatta a un quotidiano gossip pettegolo, dipendente dai barbiturici per affogare la propria costante delusione, quella della donna bellissima attraente e vagamente materna, dedita e innamorata.

Accanto a queste donne ci sono altrettanti uomini continuamente insoddisfatti e frustrati nelle loro ambizioni, la figura del “riparatore” forse affetto da schizofrenia, il capo del potente sindacato che agisce come un piccolo capomafia comprando quello che vuole con la forza del denaro, uno psichiara ambizioso e cinico che non riesce a sfondare in nesun modo, un piazzista di materiale di contrabbando espulso dal sindacato, il padre di un bambino autistico che prende una decisione estrema, ecc.

Ognuna di queste figure è ossessivamente convinta di trovarsi in un mondo ingiusto, squallido, senza futuro, ognuna di esse si trova invischiata in qualche modo in qualcosa che assomiglia alle sabbie mobili.

Il tutto immerso in una cultura di inganno, di mercificazione estrema dove ogni cosa ha un cartellino e un prezzo. Dal materiale e cibo di contrabbando, alle persone stesse (il contratto del riparatore passa da una azienda a un’altra, senza che possa fare alcunché per impedirlo), fino alla speculazione selvaggia di intere catene montuose sul quale piantare una bandierina per rivendicare la proprietà al solo scopo di rivenderla a prezzi maggiorati.

Il popolo dei “bleekman”, gli indigeni marziani (il nome stesso li definisce “uomini di colore”) esattamente come gli indigeni americani, vengono o “addomesticati” e utilizzati come servi e maggiordomi o lasciati a vagare nel deserto come spettri, considerati come dei Paria, degli inferiori (curiosamente questi originari abitanti di Marte che vivono in modo nomade ricordano i Freeman di Dune, edito lo stesso anno, 1964)

Un altro elemento autobiografico (P. D. ci parla sempre di se) è la diffidenza verso il sistema scolastico con il quale lui stesso ha avuto le sue belle difficoltà. Ecco un chiaro esempio di come Dick prende in mano la narrazione e la usa come un pretesto per fornirci un quadro sul sistema educativo visto come irregimentazione di massa, utilizzato come controllo sociale:

“Gli insegnanti meccanici dimostravano un fatto che Jack Bohlen sapeva bene: c’era una profondità sorprendente nel mondo cosidetto -artificiale- Eppure Jack provava disgusto per gli insegnanti meccanici.
Perche’ l’intera scuola pubblica svolgeva un compito che andava contro i suoi principi: la scuola non era là per informare ed educare ma per plasmare e per di più splasmare secondo linee rigidamente limitate.
Era il legame con la loro eredità culturale e la smerciava al minuto ai giovani, quella eredità, nella sua totalità.
Piegava gli alunni a quella eredità culturale: il suo traguardo era la perpetuazione della cultura e ogni particolare inclinazione dei ragazzi che potesse condurli in un’altra direzione, doveva essere eliminata.
Era una lotta Jack comprese, tra la psiche composita della scuola e la psiche individuale dei bambini e la prima aveva in mano tutte le carte vincenti. Se un bambino non reagiva come voluto allora lo si etichettava come autistico […] e quel bambino finiva per essere espulso dalla scuola, andava allora a un altro tipo di scuola fatta apposta per riabilitarlo […] non lo si poteva istruire, lo si poteva solo trattare come malato”

“Jack Bohlen non poteva accettare la scuola pubblica con i suoi insegnanti meccanici come l’unico arbitro di ciò che era valido o no. Perché i valori di una società sono un flusso continuo e la scuola pubblica costituiva un tentativo di stabilizzare quei valori, di cristallizzarsi in un punto fisso… d’imbalsamarli”.

Emergono da questi brani altri elementi interessanti oltre alla visione della scuola come istituzione per comprimere ed eliminare ogni devianza da un percorso stabilito: l’idea di insegnanti meccanici, “artificiali”, non-umani e la retro-paranoia che la scuola sia essa stessa quasi un minaccioso organismo senziente (la psiche composita della scuola).

Jack è l’alter ego nel romanzo dello stesso P. Dick e, come l’autore, anche lui soffre di episodi psicotici e allucinatori. 
Oltre ad essere individualmente molto dolorosi e vissuti come episodi terrificanti, hanno tratti anche disvelatori della realtà sottostante. Nel suo primo "episodio" (avvenutos nel suo passato), egli rimane come bloccato in uno stato catatonico e vede il direttore del personale in questo modo:

“Vide lo scheletro attraverso la pelle dell’uomo. Lo tenevano legato insieme; le ossa erano unite da sottili fili di rame. Gli organi, che ormai se n’erano andati, erano stati rimpiazzati da pezzi artificiali: rene, cuore, polmoni… ogni cosa era fatta di plastica e acciaio inossidabile e il tutto funzionava all'unisono, ma senza una vita autentica.
[…]
Forse, un tempo, in passato, quell’uomo era stato vivo e reale, ma ora non più, e il sostituto clandestino aveva preso il suo posto, a poco a poco, progredendo insidiosamente da un organo all’altro: ora l’intera struttura era lì ad ingannare la gente”.

Ancora torna l’ossessione per l’artificiale, l’ibrido unito all’umano, l’androide che prende il sopravvento e si mescola all’umano a volte mimetizzandosi in esso, a volte sopraffacendolo.

Questi momenti immaginifici e allucinatori potrebbero sbrigativamente accostare Dick a illustri come Borges, ma la grande novità di Dick quando descrive questi incubi è la loro assoluta, vivida, precisa realizzazione nell’immaginario, la loro incredibile e sofisticata descrizione (ma intuitiva allo stesso tempo) che costituisce un esempio cinematografico di immagini che si stampano nella mente del lettore e che paiono perfette per essere trasposte su uno schermo.

E’ questo, a mio modo di vedere, uno dei lasciti più fecondi che ci ha lasciato Dick: nei suoi libri migliori c’è sempre una scheggia, qualche brandello che è andato a finire, assimilato nell'immaginario pop, dentro a qualche film sopratutto a partire dagli anni 80.
Dick è sempre stato saccheggiato per questo suo talento ed è una delle eredità più fertili che ci abbia lasciato.
Scrive in anni nei quali non esiste ancora un potente substrato immaginario depositato e precipitato nella cultura popolare, lui è uno di quelli tra i primi che contribuisce a crearlo e renderlo disponibile grazie alla sua fervida immaginazione, fornendo materiale in quantità da trasporre in immagini nel prossimo futuro, quando l'industria del cinema se ne approprierà in modo diffuso, saccheggiandolo e citandolo a piene mani.

Tornando al libro, queste visioni sono anche un propellente per la paranoia aleggiante nella mente del protagonista che si chiede se le allucinazioni di cui soffre non siano in effetti la realtà “vera” che per alcuni istanti riesce ad emergere sopraffacendo la finzione.
Questo tema del vero e del falso, della realtà nascosta è un’altra costante che ricorre nell’opera di Dick e questo romanzo non fa eccezione.

“Ciò che lo aveva sempre tormentato da quell’episodio era questo: supponiamo che non sia stata un’allucinazione […] se era così allora non si era trattato di psicosi […] era stata una specie di visione, una apparizione fugace della realtà assoluta, una volta messa a nudo la facciata.”

Anche in seguito durante un incontro con altre persone tra i quali lo psichiatra del centro per ragazzi, Jack ha un episodio simile:

“Vide lo psichiatra sotto le sembianze della realtà assoluta: una cosa composta di freddi fili e d’interruttori, non più un uomo, non piu fatto di carne. La carne che lo rivestiva si scioglieva e diventava trasparente e Jack Bohlen vedeva oltre il congegno meccanico.
[…] Dottore ti vedo sotto l’aspetto dell’eternità e tu sei morto”.

Quasi una autocitazione da Ubik: “Io sono vivo, voi siete morti”.

Curiosamente (ma neanche tanto, dato che gli incubi e le storie di P. Dick passano quasi tracimando da un suo romanzo all’altro), il padre di Jack si chiama Leo (come Leo Bulero nelle “Tre stimmate di P. Eldritch”) ed esibisce in un paio di occasioni dei denti di acciaio inossidabile (chi ha letto quel il libro non potrà non provare un brivido).

Tornando alle metafore ricorrenti e alle analogie, se in “Do Androids Dream of Electric Sheep” c’era l’accumulo di “Kipple” (palta) come una sorta di polvere che si deposita ovunque inesorabilmente, capace di bloccare ingranaggi, rallentare l’uso di ogni oggetto rendendolo inservibile, qui siamo in presenza del “Gubble” (tradotto come “putrìo”), qualcosa di umido, di putrido -appunto-, che si insinua come una malattia nella mente delle persone, nel tempo stesso.

Il "putrìo" e il "Putriarca" sono la rappresentazione plastica del disfacimento temporale che opera sulla materia.

Putrìo pensò, mi chiedo: potrebbe putrìo significare il tempo? La forza che per il bambino significa decadenza, deteriormento, distruzione e alla fine morte? La forza che agisce ovunque, su ogni cosa nell’universo?”

Ecco di nuovo la lotta con l’entropia cosmica, con la morte.
Un po come ogni cosa, ogni oggetto o costruzione su Marte: sottoposto alla polvere si usura, si inceppa e si guasta. Non per niente sul pianeta esistono ed operano eserciti di "riparatori" di qualsiasi oggetto di uso comune.


Manfred è l’altra figura centrale insieme a quella di Jack.
Manfred non interagisce con nessuno se non non con i Bleekman
gubble” è l’unica parola che ripete ossessivamente Manfred: continuamente solo la parola “putrìo”.
E’ un ragazzino che vive in un mondo tutto suo. Come i mutanti dotati di poteri psionici, riesce in qualche modo a vedere il futuro, il proprio futuro.
Un futuro mostruoso e terrificante al quale tenta di sfuggire in tutti i modi.
Egli vede se stesso come nel futuro come un vecchio tenuto in vita artificialmente a cui per sopravvivere alla morte hanno sostituito le parti decrepite del suo corpo, un essere mostruoso al quale sono stati asportati quasi tutti gli organi, sostituiti con parti meccaniche.
Questa ossessione per l’ibrido uomo/macchina è come abbiamo visto uno dei temi ricorrenti in Dick esattamente come per Palmer Eldritch e la sua dentiera scintillante.

Questo bambino vede la propria vecchiaia; si vede a letto, in una condizione di disfacimento; tra vari decenni in una casa di riposo, qui su Marte, che non è stata ancora costruita: un posto decrepito che detesta fino all’inconcepibile. In questo posto del futuro trascorre anni vuoti e stanchi, costretto a letto; sarà un oggetto, non una persona, tenuto in vita da stupidi cavilli legali

Manfred vive una condizione per la quale il tempo (da qui anche il titolo del romanzo: Martian Time-Slip) è un fattore relativo e un flusso totalmente diverso da quello nel quale sono inseriti tutti gli altri.
Per lui scorre a un’altra velocità ed è per questo che non riesce a comunicare con nessuno.
Vede le persone e vede il loro destino di morte direttamente sui loro corpi.

Ecco che arriviamo così all’episodio centrale del libro in casa di Arnie Knott nel quale tra Jack, Arnie, il bambino Manfred e Doreen si ha l’allucinazione più terrificante di tutto il romanzo. E’ una allucinazione collettiva, vissuta rispettivamente da diversi punti di vista, dai personaggi e terrificante nella sua visione di disfacimento corporeo.
Sembra che Anne la terza moglie di Dick, dopo aver letto il romanzo gli disse crudelmente: “preferirei essere una puttana e battere le strade piuttosto che farmi mantenere dal denaro guadagnato con roba del genere”.
Eccone solo una parte, una parte dell’incubo di Jack assolutamente folle, delirante ma lucidissimo nel descrivere in pochi tratti l’effetto del tempo e della morte sul corpo, come se tutto scorresse a una velocità incredibile sotto i propri occhi e gli anni non fossero che pochi battiti di ciglia.

“Curvandosi su di lei, vide che la sua bellezza languida, quasi corrotta, cominciava a svanire. Incrinature gialle si spalancarono sui suoi denti; i denti si staccarono e affondarono nelle gengive, che a loro volta divennero verdi e secche come cuoio; poi lei tossì, sputandogli in faccia mucchi di polvere. Se l’era presa il Putriarca, comprese Jack, aveva fatto più in fretta di lui… La lasciò andare e lei si appoggiò allo schienale: le sue ossa si frantumarono con piccoli crepitii.
I suoi occhi si fusero tutti, divennero opachi; le ciglia di uno diventarono le zampe irsute, esitanti di un insetto peloso, che era chiuso li dentro e che voleva uscire fuori. Il suo occhietto rosso, piccolo come una capocchia di spillo, fece capolino dall’orlo lasco dell’occhio cieco, per poi ritrarsi subito, quindi l’insetto cominciò a dimenarsi facendo gonfiare l’occhio morto della donna, e infine, per un istante, sbirciò dalla lente dell’occhio, si guardò in giro, lo vide, ma non fu capace di capire chi o cosa fosse lui; non poteva usare bene il meccanismo decomposto dietro cui abitava.
Come vesciche scoppiate, i suoi seni si sgonfiarono e si appiattirono con un sibilo, e dal loro secco interno, attraverso una ragnatela d’incrinature che si allargavano sempre più, si alzò una nuvola di spore che gli salirono al viso: avevano il puzzo di muffa e di vecchiaia del Putriarca, che era venuto ad abitare nell’interno molto prima e che ora si faceva strada verso la superficie.
La bocca morta si contrasse; poi dal fondo del suo interno, dalla base del tubo che era la gola, una voce mormorò: "non hai fatto abbastanza in fretta."
E subito la testa si staccò, lasciando solo il moncone bianco appuntito del collo”

Come i vampiri o i mostri dei film che vanno incontro alla loro fine disfacendosi, liquefandosi alla luce del sole, così questi incubi non sono che la proiezione a folle velocità del tempo che tutto si porta via, della morte che incombe ineluttabile nel futuro di tutti e che si materializza in modo terrificante sotto forma di metafora allucinatoria.

Noi Marziani” forse non è il libro più amato di Philip Dick, anzi risente in modo abbastanza evidente di una riscrittura in forma sci-fi di un precedente manoscritto di narrativa mainstream, e contiene anche alcune parti poco riuscite.
E' un libro oscuro e pessimista e molto poco conciliante con il lettore.
Ma è un viaggio che vale comunque la pena di essere fatto, é in realtà uno dei migliori Dick: alcune pagine sono di una bellezza folgorante e nel suo complesso è un capolavoro di narrativa post-moderna.
Certo, il pessimismo aleggia potente, così come un diffuso “cupio dissolvi” che avvolge tutto quanto rendendolo forse uno dei romanzi più oscuri e difficili da digerire.

Anni dopo, nel 1976 in una lettera a sua madre Dorothy, egli stesso ebbe a dire:

"Ho avuto modo di rileggere il mio romanzo del '64 -Noi Marziani-
L'ho trovato debole da punto di vista drammatico (debole nella trama), ma straordinario per le sue idee.
Credo sia quello che faccio sempre scrivendo: analizzo l'universo per vedere cosa gli succede.
Nei miei romanzi sono visibili le travi sotto il pavimento dell'universo"

Non potrei essere più d'accordo.
Un’altra trappola perfettamente congegnata da P. K. Dick.