Gli androidi sognano pecore elettriche?
Do Androids Dreams of Electric Sheep? (1968) by Philip K. Dick
Per leggere “Do Androids Dream of Electric Sheep?” bisognerebbe riuscire a dimenticare totalmente gli ultimi 40 anni di immaginario filmico depositati a livello collettivo, grazie a Blade Runner di Ridley Scott.
Lui e tanti altri dopo, hanno saccheggiato a piene mani P. K. Dick rileggendolo e rivisitandolo. Adattandolo lo hanno vivificato, togliendogli spesso quella ingenua patina di “antico” e usandone la fervida immaginazione per creare scenari immaginifici nuovi ed elettrizzanti, in un binomio fruttuoso.
Proprio perché il film di Scott è un autentico capolavoro è difficile riuscire a fare tabula rasa e provare a non ricordarlo.
Questa -da lettore- è stata la prima difficoltà a cui sono andato incontro.
La mente corre sempre a Vangelis, agli scenari di una L.A. distopica e sempre sotto le pioggie acide. Pensi a Deckard/Rachael e li pensi con le fattezze di Harrison Ford/Sean Young.

Certo, Deckard è un cacciatore di taglie, Rachel è una replicante e ci sono in giro dei Nexus-6 da “ritirare”, ci sono le industrie Rosen, ma le somiglianze direi si esauriscono li’.
Nel libro Deckard è addirittura sposato (un tema ricorrente e autobiografico nei libri di Dick: quello dei matrimoni complicati). Deckard ci appare nei panni di un funzionario un po dimesso, ossessionato dal suo status sociale e dai soldi, molto lontano dal Deckard/Marlowe di R. Scott.
In questa storia le persone hanno una scatola a cui si rivolgono, con al suo interno una programmazione in grado di normalizzare l’umore. Non c’è una pioggia incessante ma la polvere radioattiva che ha ucciso quasi del tutto ogni forma di vita umana e animale e soprattutto c’è la “palta” (trad di “Kipple”) una sorta di disordine entropico contro il quale tutti hanno a che fare e contro il quale siamo destinati a perdere.
Isidore (che nel film prende il nome di Sebastian), uno “speciale” (anche detto “cervello di gallina” in modo spregiativo) vive in un palazzo deserto e in rovina che ritroviamo anche nel film. In questo palazzo si rifugiano gli ultimi Nexus-6.
Isidore si rivolge a Pris (che nel libro è la copia identica di Rachel) spiegando:

E’ una mistura di disordine e di oggetti inutili, polvere, spazzatura e avanzi di “cose”, ma soprattutto è qualcosa di metafisico, immateriale e con un livello di entropia contro il quale non si può far nulla.
E’ questo livello metafisico nel quale galleggiano i personaggi del libro, androidi o umani, che è il vero sotto-testo del libro. Non solo quello della “palta” ma anche quello del caso, del destino vacuo, di eventi che si mettono in moto che possono avere segno positivo (come la “fortuna” nei “Giocatori di Titano”) o negativo come spesso accade in questo libro.
Le persone sono ossessionate dal possedere gli ultimi animali viventi rimasti sulla terra che vengono venduti da negozi speciali a prezzi altissimi. Sono un sigillo sociale, uno indicatore di status: più è grande l’animale e più costa e di conseguenza più prestigio si assume nei confronti dei vicini di casa, dei colleghi, della propria cerchia sociale.
Da un topolino (raggiungibile da chiunque), fino a un gatto, una pecora, per arrivare al cavallo del vicino di casa: irraggiungibile per Deckard.
Rick gira continuamente con il catalogo dei prezzi relativi agli animali in tasca. Questa ossessione (assente nel film) è puntualizzata ovunque nel libro, e fonte di continuo disappunto per Deckard. Questo prezzario: il “Catalogo Sidney” è la metafora neanche troppo velata della commercializzazione, della mercificazione che attraversa tutta la società. Anche questo è un tema ben presente, sotterraneo, ma che emerge in continuazione. Gli androidi vengono “ritirati” a un prezzo concordato, ogni cosa ha un bollino, un prezzo. Uccidere tutti i Nexus-6 darebbe la possibilità a Deckard di accedere ai migliori “prodotti” presenti sul Sidney… ed in effetti alla prima occasione dopo aver ucciso i primi Nexus, si precipita a comprare una preziosa “capra nubiana” per se e la moglie. Per tutti gli altri ci sono gli animali elettrici, copie di quelli veri: vengono venduti appositamente per consentire a chi non a abbastanza soldi di partecipare a questo incubo tragicomico nel quale tutto si compra e si vende.
A questa ossessione si associa costantemente il tema del vero e del falso, un classico che si ritrova pressoché ovunque nel lavoro di Dick: la dicotomia sempre sfuggente tra l’artificiale e il naturale, tra l’animale elettrico e quello vero, l’androide e l’umano.
In un rincorrersi dualistico che si fonde, perché nonostante questi temi siano speculari spesso sono solo due facce della stessa medaglia e quindi diventano complementari. Esemplare a questo proposito, tutto l’apparato per effettuare il test di “Empatia di Voigt-Kampff” (viene in mente il “fidelity test” di Westworld) che rivela se un soggetto è un androide o umano. Un test sempre sul punto essere invalidato e sconfitto. Una cartina di tornasole che diventa inevitabilmente inadatta sui nuovi modelli.
L’androide sempre visto come un oggetto non umano ma allo stesso tempo carico di umanità, alieno e distante oppure vicino. Somiglianza e verosimiglianza, la falsa coscienza, l’inganno costante. Dopo il rapporto sessuale in Hotel tra Deckard e Rachel, in lui cresce un atteggiamento diverso verso ciò che prima considerava puramente senza vita, meccanico; e piano piano diventa una presa di coscienza e un cambiamento anche dentro di lui. Che inevitabilmente diventa un nuovo inganno e una nuova delusione.
Una suggestione completamente assente rispetto al film è quella di un Deckard a sua volta androide, ma come vedremo gli uomini comunque vivono su uno scenario chiuso lottando contro convenzioni sociali e un destino deterministico al quale si sfugge solo attraverso oniriche e allucinatorie fughe dalla realtà attraverso l’uso delle “scatole empatiche”.
Fughe dalla realtà che si materializzano attraverso la parabola cristologica di Mercer (mercy) un personaggio virtuale che emana da una di queste scatole empatiche e che consente di esperire in modo virtuale ma completamente coinvolgente, una salita solitaria ma al tempo stesso collettiva (con tanto di lancio di pietre), su una collina che richiama direttamente il Golgota evangelico. Anche questo un tema ricorrente nelle opere dalla metà degli anni ’60 in poi: quello mistico e allucinatorio. Un misticismo anche questo sempre in discussione, visto come catena e come liberazione dell’uomo, in bilico tra l’atto di fede e il disvelamento positivistico (nel libro c’e’ la rivelazione in diretta TV che si tratta solo di una truffa “oleografica”). Anche questo un dilemma, un rovello continuo dell’anima che non ha soluzione.
Un libro che si interroga e ci interroga sulla condizione umana, nel quale l’apparato classico sci-fi è chiaramente più che mai un mero pretesto per riflettere del destino dell’uomo, di libero arbitrio, di determinismo, di reale e irreale, alienazione, libertà individuale o immanente condizione alla quale non si sfugge. P. K. Dick non predica mai, non esplicita mai direttamente tutto questo apparato. Il suo metodo di scrittura prevede di mettere in campo queste suggestioni, questi input attraverso la storia e quello che accade ai personaggi.
Per finire, tutto quanto è immerso in un paesaggio pieno di rovine, post-apocalittico, dove è incombente sempre il senso di minaccia, dove la vita stenta a sopravvivere, gli uomini si rifugiano in viaggi virtuali esperiti attraverso queste “scatole empatiche” mentre fuori dagli appartamenti si parcheggiano automobili volanti in terrazza insieme ai propri animali finti o veri che siano, simboli di una umanità allo sbando, senza valori, in adorazione di falsi dei.
Bellissima nel finale la scena nella quale seguiamo Deckard in una fuga senza scopo, lontano dalla città, in un ambiente ostile con colline e pianure ricoperte interamente di spazzatura. Una scena che sembra presa in modalità fotocopia da Villeneuve nel suo “Blade Runner 2049”.
Dopo essersi fermato in mezzo al nulla Deckard trova un rospo. Un animale mitologicamente raro che porta con se a casa, nella illusoria convinzione che possa cambiargli la vita.
Un altro inganno, un altro nulla di fatto.

Un altro esempio di come l’immaginario di P. K. Dick ha influenzato a sua volta l’immaginario filmico in un rapporto incessante di continuo prelievo di materiale e costante citazionismo.
Tra i libri di Dick questo è uno dei più tristi, pessimisti e cupi, con un finale che non è un finale, domande che non hanno risposta. Un libro alla fine del quale ti sembra di non aver afferrato quasi nulla, di essere rimasti con in mano un pugno di sabbia.
Anche per questo spinge a riflettere, e come spesso accade con P. K. Dick, tutti questi temi e riflessioni arrivano dopo.
Oltre l’ultima pagina.